Conglomeratomania: la sfida verticale sulle pareti preistoriche dell'Adda
Tra geologia millenaria e passione sportiva: viaggio nelle falesie 'impossibili' che hanno conquistato centinaia di climber
Man mano che si scende lungo la breve ma ripida strada, l'impressione è quella di entrare nella macchina del tempo con l'orologio impostato sulla preistoria, in una di quelle ere caratterizzate da foreste tropicali rigogliose, umidità a mille e rocce tappezzate da liane e muschi invadenti
Invece siamo nel Ventunesimo secolo e ci troviamo sulla sponda orientale del fiume Adda, un tempo Repubblica di Venezia. Meno battuta della riva opposta, la si percorre lungo un sentiero sterrato che in alcuni punti, poco visibili, presenta dei bivi che sembrano portarti al centro della Terra. Lì, in epoche non troppo lontane sono nati i primi insediamenti di una specie molto particolare: gli arrampicatori e le arrampicatrici di falesie di conglomerato.
«Oltre agli amanti del trekking e delle Gravel, negli ultimi tre decenni le pareti del versante bergamasco dell'Adda sono diventate un punto di riferimento importante per chi ama la roccia», spiega Rèmi Scaglioni, storico arrampicatore e chiodatore di queste falesie, ideatore, nel 2021, del gruppo Facebook Conglomeratomania, che oggi conta più di 500 iscritti. Un "Gruppo che nasce con l'esigenza e il piacere di condividere info, suggerimenti, nonché emozioni legate a questi luoghi particolari ed affascinanti", si legge sulla pagina social. «L'ho aperta durante la pandemia, mi sembrava il momento ideale per creare qualcosa che sensibilizzasse gli amanti dell'arrampicata verso un luogo speciale non solo dal punto di vista sportivo ma anche da quello naturalistico», aggiunge.

Il ceppo dell'Adda: una pietra disegnata dal fiume
La roccia che caratterizza la valle dell'Adda ha una storia antica e affascinante dal punto di vista geologico.
Infatti, durante la glaciazione di Würm, circa 11.000 anni fa, si verificò un'alternanza di avanzamento e ritiro dei ghiacciai alpini nella pianura. Questo processo ciclico di espansione e contrazione glaciale comportò significativi eventi di scioglimento, con imponenti flussi idrici. Tali correnti trasportarono e depositarono ingenti quantità di materiale detritico, principalmente sabbie e ciottoli provenienti dalla Val Masino, che si sedimentarono sullo strato argilloso della pianura.
Successivamente, un processo di cementificazione calcarea consolidò questi depositi alluvionali, formando il ceppo dell'Adda o ceppo Lombardo. Questa formazione rocciosa sedimentaria chiamata conglomerato per la composizione dei suoi clasti (ciottoli) costituisce attualmente il substrato su cui scorre il fiume omonimo, nonché le ripide pareti della forra tra Calusco e Trezzo d’Adda.

Il sito presenta una formazione geologica paragonabile a un canyon, con una profondità superiore ai 100 metri rispetto al livello della pianura circostante. Quest'area, fittamente coperta da un bosco di querceti e carpineti a testimonianza dell'originaria foresta padana, è tutelata dal Parco Adda Nord.
La falesia dei turnisti
L’interesse per le falesie di conglomerato dell’Adda inizia nei primi anni Novanta, con due pionieri della chiodatura della forra, Alessandro Ronchi e Alfio Formenti. «Instancabile, Alfio è anche l’autore delle messa in sicurezza dei settori Spiaggetta, Scorpioni e delle vie classiche del Canyon. Oggi, grazie al lavoro volontario di appassionati, considerando tutti i settori - Primo, Secondo, Frankenstone, Anticanyon e Canyon, Scorpioni, Spiaggetta con la Piramide (una placca adatta a bambini e principianti) - si contano circa 250 vie attrezzate, tracciate su gole e pareti strapiombanti», spiega Rèmi.

Per la facilità con cui si può raggiungere dai paesi limitrofi, quella della forra è sempre stata considerata la falesia dei turnisti, cioè degli appassionati che a qualsiasi ora, lavoro permettendo, si lasciano la ‘civiltà’ alle spalle per calarsi in una dimensione più selvaggia.
«Prima si andava nel Lecchese, poi abbiamo iniziato a cercare un posto dove arrampicare a ‘km zero’», spiega Matteo Bielli, tra i primi a chiodare le falesie di conglomerato.
L’arte della chiodatura: tra passione e cura del territorio
Mettere in sicurezza le pareti di conglomerato è lavoro non facile. Richiede tempo e un discreto investimento economico per l’acquisto del materiale necessario alla manutenzione. Racconta Rèmi: «Oltre alle spazzole di ferro e ai soffiatori per la pulizia della roccia, usiamo trapani a percussione e chiodi resinati in acciaio inossidabile che per risparmiare costruisco io stesso. Diciamo che un tiro di 20 metri richiede anche dieci ore di lavoro. Tempo fa abbiamo lanciato la colletta Una birretta per il Canyon, per sensibilizzare tutti i fruitori delle pareti di arrampicata al sostegno delle spese per la messa in sicurezza, la manutenzione e la chiodatura di nuove vie. Il Canyon, ad esempio, ha 70 tiri di corda, ma sviluppandolo se ne potrebbero tracciare il doppio. Purtroppo il crowdfunding non ha avuto un grande successo, ma io continuo a lavorare sulle pareti, perché chiodare è la mia passione e mi piace tanto quanto arrampicare. Comunque c’è chi apprezza l’impegno, come quel signore che nel vedermi trafficare sulle pareti mi ha lasciato spontaneamente 100 euro».
Come già ricordato, tra i primi chiodatori c’è anche Matteo Bielli: «Ho iniziato nel 1999 e tra gli storici frequentatori ricordo Ambrogio Airoldi, Giuseppe ‘Ciusse’ Bonfanti, Marina Lecchi e Tino Comi. Prima si andava nel Lecchese, poi abbiamo iniziato a cercare un posto a ‘km zero’, per riuscire ad arrampicare tra i tanti impegni quotidiani. In particolare, la scoperta del Canyon ci ha letteralmente proiettati in un mondo parallelo e selvaggio rispetto a quello in superficie. E difatti la prima via l’abbiamo chiamata Jurassica, che ho chiodato proprio con Airoldi».

«Il ceppo dell’Adda è fragile, tende a scaricare. Ci prendevano in giro perché era un po’ come chiodare su ghiaia. Una bella scommessa. All’inizio usavamo tiranti meccanici, poi fittoni resinati. Con tutte le difficoltà poi ci siamo abituati e ora, nonostante non sia una roccia semplice, i settori sono sempre molto frequentati», sottolinea Bielli. Dello stesso parere è Rèmi Scaglioni, che sul gruppo Facebook scrive, citando il grande alpinista Lorenzo Massarotto: ‘Il conglomerato dell'Adda è una pietra non facile da boxare’.
Anche se l’arrampicata sul conglomerato è una sfida, essendo protette da una fitta vegetazione queste pareti strapiombanti permettono il climbing in tutte le stagioni. Anche quando piove. « Nei settori Canyon e Scorpioni, ad esempio, abbiamo messo cinque catene intermedie per renderle accessibili anche in caso di maltempo», dice Rèmi.

Un patrimonio da preservare
L’interesse per le falesie della forra dell’Adda non è mai stato solo confinato all’arrampicata, ma soprattutto alla tutela di un territorio unico dal punto di vista naturalistico. «E pensare - spiega Rèmi - che quelle gole sono state sempre utilizzate come discarica». Ora, che grazie anche alla frequentazione dei climber i settori sono più puliti, una nuova minaccia ambientale incombe, cioè il progetto per la costruzione di un nuovo ponte sulle sponde di Calusco e Paderno d’Adda. «Un’opera che avrebbe ripercussioni negative sul patrimonio ambientale e storico di questa zona. I geologi hanno già eseguito dei carotaggi e se fosse approvata la fattibilità di un nuovo viadotto l’impatto naturalistico sarebbe devastante, oltre al fatto che aumenterebbe a dismisura il traffico pesante nei centri abitati».
Le falesie del conglomerato dell'Adda rappresentano molto più di un semplice luogo di arrampicata. Sono un racconto geologico millenario, un museo a cielo aperto dove ogni parete narra di ghiacciai, fiumi e depositi sedimentari. Qui, tra le gole del Parco Adda Nord, gli arrampicatori non sono solo sportivi, ma custodi di un ecosistema unico, testimoni di una natura che resiste e si rinnova.
L'impegno di pionieri come Rèmi Scaglioni, Matteo Bielli e Alfio Formenti e molti altri va oltre la semplice pratica sportiva. È una missione di conservazione, di riscoperta, di connessione profonda con il territorio. Ogni chiodo piantato, ogni via attrezzata, ogni ora spesa a pulire e manutenere questi settori è un atto di amore verso un luogo che deve essere tutelato.
Le sfide ambientali - dall'antico uso come discarica ai progetti infrastrutturali che minacciano l'equilibrio ecologico - rendono questo lavoro ancora più prezioso. Il conglomerato dell'Adda diventa così un simbolo di resistenza: una roccia fragile ma tenace, proprio come la comunità di climber che la vive e la protegge.
Tutte le fotografie utilizzate per l’articolo sono state gentilmente concesse da Rèmi Scaglioni.
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