E se mi fossi sbagliata sul mare?
Partire per creare spazio, per esplorare e regalarsi altre possibilità. Però che bella la costa selvaggia del Portogallo!
Non so come mi ci sia trovata su quel cammino. Tra i tanti, proprio uno a picco sul mare. Io, che il mare l’ho visto per la prima volta a dodici anni, quando non c’erano le protezioni solari, il bagno era permesso solo alle quattro e prima della merenda.
Il mare per me era sempre stato più divieti che libertà. Forse per questo non è mai esploso quell’amore che percepisco dalle persone che mi raccontano quanto sia bello immergersi o semplicemente nuotare nel profondo blu.
Così, seguendo solo un richiamo arrivato da chissà dove, a giugno ho percorso a piedi tutta la costa sud ovest del Portogallo, il Trilho dos Pescadores, il Cammino dei Pescatori.
Volevo festeggiare il mio compleanno in modo diverso, volevo fare pace con un ambiente che meritava una seconda occasione. Nessuna ricerca di me stessa o del senso della vita. Solo la voglia di scoprire, di esplorare, di capire.
Di avere tempo.
E anche questo articolo è, per me, qualcosa di nuovo. Non so scrivere di me, fatico a raccontare i miei pensieri, preferisco ritrovarmi nei racconti degli altri, cercando esperienze che siano di ispirazione. Semplicemente è più facile così: quando non sei tu a metterti in gioco puoi toccare certe corde senza il rischio di suonare stonato.
Poi, come per il mare, una seconda occasione l’ho data anche a me stessa, provando a buttare giù qualche pensiero per poi pubblicarlo.
Non racconterò le tappe del cammino: per questo esistono guide dettagliate e siti aggiornati. Voglio solo provare a tradurre in parole cosa è rimasto di oltre duecento chilometri percorsi a piedi lungo la wild west coast portoghese.
Sensazioni tante, positive e complicate, ma la frase chiave di questo viaggio è stata chiara fin dall’inizio: qualsiasi cosa accada, tu vivila. L’idea era quella di lasciarsi trapassare da ogni situazione, filtrare e tenere solo l’essenziale per quando avrei avuto bisogno di ricordi belli, di consapevolezze, di risposte. Di nostalgie.
Ma per riuscire a filtrare davvero, per sentire cosa meritava di essere tenuto, dovevo creare spazio.
Avevo bisogno di stare sola, non per pensare alla mia vita, ma per allontanarmi da lei, da quello che sono nella quotidianità e avvicinarmi alla natura, ai suoi rumori e ai suoi silenzi.
Una solitudine scelta, abitata, piena di scoperte. Non il silenzio dell'isolamento, ma quello dell'ascolto. Del vento, dei pensieri che finalmente avevano spazio per respirare, del corpo che ritrovava i suoi ritmi.
Una solitudine che mi ha ridato il senso della libertà: potevo camminare al mio ritmo, fermarmi quando volevo, cantare ad alta voce senza sembrare pazza.
Desideravo sedermi nella piazza di un paesino sperduto dell’entroterra, dove il caldo ti obbliga a una modalità slow-motion e tutto diventa più reale, definito.
Volevo annoiarmi, sentire le mancanze, ricordare a me stessa che ho ancora sogni che attendono una chance.
In quei nove giorni, ho rivendicato il lusso di perdermi, di sfidare le vertigini e sedermi su una scogliera a picco sul mare, con un panino in una mano e il frastuono invadente delle onde oceaniche contro le alte falesie.
Mentre guardavo le cicogne accudire i loro nidi, pensavo a quanto noi umani riusciamo a complicarci la vita. E così mi sono chiesta se anch’io, nella mia quotidianità, non stessi costruendo gabbie invisibili, creando drammi dove basterebbero gesti semplici.
Ho capito che il mare che temevo e che ancora un po’ temo forse è solo la trasposizione di paure cucite addosso nell’arco di una vita. Timori fatti di divieti che ci siamo dati, di limiti che abbiamo accettato senza mai verificare se fossero davvero nostri. Quelle paure che ti tengono lontano da posti, persone, esperienze, solo perché una volta, magari da bambini, qualcuno ci ha detto di stare attenti. E noi continuiamo a starci attenti, anche quando non serve più.
Eppure bastava camminare, un piede dopo l'altro, seguendo due semplici linee, una verde e l’altra blu, per ricordare che la felicità può essere anche solo questo: il sole sulla pelle, il rumore del vento, la stanchezza buona della sera.
Alla fine, non so ancora se ho davvero fatto pace con il mare, ma ho capito che vale sempre la pena dare una seconda occasione: a un luogo, a una persona, a noi stessi.
Quante cose nella vita scriviamo troppo in fretta come 'non per me'? Quante porte chiudiamo prima ancora di averle aperte? Il cammino mi ha insegnato che le seconde occasioni sono atti di generosità a noi stessi.
Verso tutte le versioni di noi che non abbiamo ancora avuto il coraggio di esplorare.
Wow! ❤️