Come la materia liquida, attraversiamo sbarre e serrature
Il teatro può cambiare la vita delle persone recluse? La risposta è sì. Ce lo spiega Ivana Trettel, fondatrice, regista e direttrice artistica di Opera Liquida.
Era la prima volta che entravo in un carcere di massima sicurezza. Nella Casa di reclusione di Milano-Opera ci sono stata ad ottobre, in occasione dello spettacolo drammaturgico della compagnia teatrale Opera Liquida Extravagare. Rituale di reincanto, scritto da Ivana Trettel e Alex Sanchez.
All’entrata del carcere si lascia tutto, cellulari, borse, ombrelli. Oltrepassato il metal detector si approda in un’altra dimensione, fatta di porte che si aprono e si chiudono subito alle spalle, lunghi corridoi, edifici con finestre sbarrate.
Ogni dettaglio racconta una storia di sottrazione.
Si arriva quindi alla grande sala teatrale, la divisione è netta: da un lato i detenuti, dall'altro noi spettatori esterni. Non posso fare a meno di guardarli, trattenendo a stento una curiosità che so essere fuori luogo. Cosa li ha portati fin qui? Cosa significa per loro questo momento?
Poi, lo spettacolo inizia. E accade qualcosa di magico. Le musiche avvolgono la sala, i corpi degli attori si muovono sul palco con una grazia inaspettata. A un certo punto, quella linea immaginaria tra "loro" e "noi" sparisce. Siamo semplicemente persone unite da un racconto.
È in questi momenti che realizzo quanto il teatro possa essere più di un semplice spettacolo. Qui, è uno strumento di ricostruzione, di riscoperta di sé. Vorrei che tutti potessero provare quello che sto sentendo.
All’uscita, il mondo esterno sembrava diverso. Avevo attraversato un confine che non era fatto di muri, ma di possibilità.

Fondatrice e direttrice artistica delle attività di Opera Liquida, compagnia teatrale che da anni lavora con i detenuti di media sicurezza, Ivana Trettel è laureata in Discipline delle Arti, Musica, Spettacolo e Comunicazioni di Massa (DAMS) all’Università degli studi di Bologna. Si avvicina all’ambiente carcerario in modo casuale e decisiva fu la sua prima esperienza di teatro dietro le sbarre, nel carcere milanese di San Vittore. "Il carcere mi ha attraversata - dice -. Dentro le emozioni si dilatano, ogni gesto diventa un racconto". Capisco cosa intende. Entrando nella Casa di reclusione di Opera, anch’io ho percepito un’aria densa di storie trattenute.
“Nel 2008 Opera Liquida era un piccolo laboratorio teatrale - spiega Ivana - che ha sovvertito il concetto di società liquida di Zygmut Bauman. Dove lui vedeva disgregazione, noi abbiamo intravisto visto possibilità, qualcosa che poteva andare oltre le sbarre. Diffondersi".
Se cerchiamo l’origine del teatro in carcere dobbiamo riavvolgere il nastro fino al 1957 quando, nella prigione di San Quentin, a San Francisco, viene messa in scena l’opera Aspettando Godot, di Samuel Beckett, una riflessione profonda sulla condizione umana e sul senso dell’attesa, due temi chiave per chi vive recluso. Lo spettacolo ha un impatto così travolgente sui detenuti, che Rick Cluchey, ergastolano, fonda il San Quentin Drama Workshop.

Cluckey diventa sceneggiatore e attore, finché nel 1966 viene scarcerato per meriti artistici. La sua carriera continuò anche fuori dal carcere e lavorò persino con Beckett.
In Italia, si inizia a parlare di rieducazione del detenuto grazie al provvedimento Gozzini (legge n. 663, 1986), che rappresenta ancora oggi, seppur con alcune modifiche, il punto di riferimento per le attività culturali, ricreative e di formazione professionale per il reinserimento sociale di chi sta scontando una pena.
“Un gruppo di ricercatori dell’Università Bocconi1 di Milano guidato dal professor Filippo Giordano - mi spiega Ivana - ha calcolato l'impatto sociale delle nostre attività teatrali nel carcere di Milano-Opera con la metodologia Sroi (Social return on investment)”. L'indagine, riferita al 2018, ha dimostrato che per ogni euro investito nel laboratorio c'è un ritorno di 2,48 euro. "Che tradotto, significa benefici in diversi ambiti: dalla sfera affettiva, all'autostima, al miglioramento dell'integrazione e del rapporto con i figli, riduzione di comportamenti dannosi, di recidive e di assunzione di psicofarmaci". Tutto ciò si riflette in positivo anche sui costi di mantenimento delle strutture di reclusione che oggi sono in sofferenza per il numero elevato di detenuti. Si legge sull’articolo del Corriere della Sera: “Ogni detenuto «costa» allo Stato 154 euro al giorno, di cui solo 6 per mantenerlo. E appena 35 cent vengono usati per la «rieducazione» prevista dalla Costituzione”.
Ma ritorno a Opera Liquida e chiedo a Ivana come avviene la selezione dei partecipanti al laboratorio teatrale. “Affiggiamo delle locandine ai piani invitando le persone detenute a candidarsi. Le richieste vengono vagliate dalla sicurezza e dall’area educativa, poi sostengono un colloquio con me. I requisiti fondamentali sono: assenza di problemi fisici gravi, perché lavoriamo molto con il corpo e l’attitudine a lavorare in gruppo. Uno spettacolo funziona solo se c’è una grande sintonia tra gli attori”.

Recitare significa anche esplorare e mettere in scena aspetti della nostra persona che spesso siamo costretti a reprimere. Per sua natura, il carcere tende a creare quella situazione chiamata infantilizzazione del detenuto, per cui le persone recluse sono private del diritto di decidere, di gestire in modo autonomo la vita quotidiana. Proprio come i bambini, sono sorvegliate di continuo e vivono in spazi piccoli. “Durante il laboratorio assistiamo a un graduale cambiamento di atteggiamento. L'assenza di giudizio è la base del teatro, per cui gli attori imparano a stare insieme e fidarsi l’uno dell’altro e si trovano ad agire in modo autonomo in luoghi in spazi di libertà ”.
“Lavoro molto sullo sguardo - continua Ivana Trettel -. All’inizio, la maggior parte dei miei attori ha gli occhi bassi e la postura è ingobbita, tipica espressione di chiusura, di chi ha una scarsa autostima. Oppure, al contrario, ti guardano dall’alto con arroganza, come per sfidarti. Sono tutti atteggiamenti di protezione che a poco a poco, attraverso il teatro, riusciamo a smantellare. Un attore mi aveva confidato di credere di non avere un cuore e di aver ritrovato l’umanità proprio grazie al teatro”.

In Opera Liquida tutto viene fatto internamente: oltre al laboratorio teatrale, i detenuti possono seguire corsi di formazione professionale per diventare costumisti, scenografi, tecnici audio luci. “Per preparare uno spettacolo serve in media un anno e mezzo di tempo. Fortunatamente, noi festeggiamo gli addii e quindi siamo sempre alla ricerca di nuovi protagonisti, anche se nella compagnia recitano persone libere da anni che hanno incontrato il teatro proprio grazie al nostro laboratorio. Come Carlo Bussetti, Alfonso Carlino, Vittorio Mantovani”.
Il lavoro di Opera Liquida non si limita al laboratorio teatrale e con il progetto Stai all’occhio! entra nelle scuole secondarie per parlare di prevenzione dei comportamenti a rischio. “Gli studenti ascoltano con attenzione le testimonianze delle persone ex recluse, che sono i veri tutor degli incontri. Vince la sincerità e il coraggio di ammettere gli errori. E questo atteggiamento viene subito accolto dai giovani ”. “Inoltre - prosegue Ivana - collaboriamo con l’associazione BambiniSenzaSbarre, a sostegno della genitorialità reclusa, mentre speriamo di ritornare a breve con il Festival di Teatro e Carcere Prova a sollevarti dal suolo”.
Conclude Ivana: “Opera Liquida è la mia creatura complessa e fragile, che mi dà preoccupazioni ma anche molta gioia. e soprattutto mi ha insegnato la pazienza. Amo molto il mio lavoro. Stiamo già preparando il prossimo spettacolo. Si chiamerà Selvatico ancestrale e parlerà di Natura e resistenza. Pensando al futuro, cerco di buttare le basi affinché questo progetto continui anche anche dopo di me”.
Qui un estratto dell’indagine pubblicata sul il Sole 24 Ore.
Tutte le foto appartengono a Opera Liquida, che mi ha permesso di utilizzare ai fini della newsletter.