Due passi nella storia con l'alpino Lorenzo
Erbe selvatiche, racconti antichi, i segni della guerra. E poi la montagna, da sempre scenario che accompagna la vita di un uomo che ha attraversato la storia.
Ci sono giornate che sembrano fatte apposta per rimanerti appiccicate addosso, momenti che sembrano fotografie antiche, un po’ ingiallite. Nostalgiche e belle. L'incontro con l’alpino Lorenzo Amadini, classe 1940, è stato esattamente questo: un tuffo in un passato che ancora parla. Lui conosce le erbe selvatiche e racconta storie intrecciandole come sentieri di montagna, un sapere antico introvabile nei libri ma presente nelle pieghe della pelle di chi ha vissuto mille vite. Non sempre tutte facili.
In tempi in cui tutto sembra sfuggirci di mano, Lorenzo mi ricorda l’importanza di fermarsi ad ascoltare il respiro delle cose.
Dalle sabbie della Libia alle valli bresciane
Lorenzo nasce a Tripoli, in Libia, uno “scatolone di sabbia con qualche oasi”, come la definì il politico socialista Gaetano Salvemini, colonia italiana dagli inizi del Novecento fino alla Seconda Guerra Mondiale. I nonni, semplici mezzadri, avevano attraversato il Mediterraneo inseguendo la promessa di una vita migliore. Come tanti italiani, si dedicavano alla bonifica e alla coltivazione delle zone desertiche di quella "nuova provincia" italiana.
La famiglia Amadini resta in Africa fino al 1942, quando il regime fascista li costringe al rimpatrio forzato. «Ci hanno riportati in Italia con i soli vestiti che avevamo addosso», racconta con la semplicità di chi ha imparato a ricominciare più volte. «A Ludizzo, frazione di Bovegno, in Alta Val Trompia, all’inizio siamo stati ospitati dai vicini. Non avevano molto, ma quel poco bastava».
Racconta: «Uscivo da scuola e andavo dritto nei boschi, senza pranzare. Mi davano uno zainetto con pezzi di gallina bollita e quando arrivavo alla baita dei nonni trovavo sempre polenta e latte. Poi via, a radunare le capre. E per colazione, solo un pugno di castagne».
Nella Val Trompia le miniere di ferro, piombo, zinco e argento sono state per secoli la principale risorsa economica. «Tutta la mia famiglia ha lavorato nel sottosuolo. Ci sono stato anch'io fino alla partenza per il servizio militare», confessa. «Sperimentavamo l'utilizzo dell'acido fluoridrico per l'estrazione dei metalli. Senza protezioni, senza protocolli di sicurezza. Quei fumi mi sono costati gravi ulcere allo stomaco e non pochi problemi di salute».

La montagna nel cuore
La naja la fa a Udine, nell'8° Reggimento della Brigata alpina Julia. «Ero quello che si definisce un imboscato», sorride. «Avendo un minimo di istruzione mi hanno assegnato all'ufficio». A differenza di molti coetanei, Lorenzo aveva infatti completato la quinta ginnasio e seguito corsi di meccanica industriale, mestiere che poi eserciterà fino alla pensione.
Ma è quando parla della montagna che gli occhi di Lorenzo si illuminano. «L'ho vissuta in tutte le forme possibili. E se la vita non mi avesse riservato alcune sorprese, mi sarebbe piaciuto tanto fare il rifugista», mi confida con orgoglio. Nel ‘suo piccolo’ ha comunque scalato tre volte la Nord dell'Adamello, Punta Dufour – la cima più alta della Svizzera – e due volte il Monte Bianco. «Sulla Cima Brenta ho persino incontrato Reinhold Messner: scendeva come un capriolo!».
«Non avevamo materiali tecnici, ci costruivamo da soli i chiodi e il più delle volte salivamo in libera. Oggi vedo i giovani alpinisti arrampicare con addosso un sacco di ferramenta!». Poi ammette, con onestà: «Rimpiango solo di non essere mai riuscito a salire in vetta al Cervino. Ogni tentativo è stato fermato dal maltempo. E forse mi è sempre mancato il coraggio per riprovare».
Per tredici anni consecutivi ha partecipato al Rally Alpinistico dell'Adamello, una competizione di tre giorni con tappe impegnative, le prime edizioni fatte con sci di legno. «La gara comprendeva diverse prove tecniche e una prova segreta. Non si sapeva mai cosa aspettarsi!».
Un pranzo tra natura e storia
Lorenzo mi invita nella sua casa di Bovegno, dove vive con la figlia Barbara e dove mi aspetta un pranzo stellato: ravioli fatti a mano da Lorenzo stesso, ripieni di spinacio selvatico – il Buon Enrico – conditi con un po’ di "untino" (burro di malga), erbe spontanee saltate in padella e tè aromatizzato con salvia, rosmarino, menta, melissa e miele.

«Mi piace cucinare ed essere indipendente», confessa mentre mi serve il caffè corretto con grappa alle erbe. «Da piccolo osservavo mamma e nonna ai fornelli. Non mi hanno mai dato lezioni, ma ho imparato subito a rubare i mestieri con gli occhi».
Divoro ogni boccone con gratitudine, poi ci mettiamo in cammino. Zaino in spalla, parto con Lorenzo e Alessia Abrami per il Passo Maniva. Lungo il percorso si affacciano le costruzioni diroccate delle vecchie miniere, testimoni silenziose di un'epoca di fatica e sacrificio. Rifletto su quanto questa terra abbia dato e tolto ai suoi abitanti: ricchezza mineraria a costo di vite e salute, ma anche angoli di straordinaria bellezza naturale.
Facciamo alcune soste per raccogliere erbe selvatiche: silene, Buon Enrico, ortiche, bistorta, cicoria e il farfaraccio che cura ogni male. «I nonni mi hanno insegnato a riconoscerle», spiega Lorenzo mentre si china con agilità sorprendente per i suoi anni.
Camminare nella storia
Dopo una sosta allo Chalet Maniva per il caffè della casa – una miscela esplosiva di caffè, bombardino e grappa alla prugna – Lorenzo e Alessia mi guidano attraverso le trincee e in uno dei bunker della Grande Guerra. Il confine con l'Austria era così vicino che tutta l'area del Maniva venne fortificata e militarizzata.
Camminare tra queste trincee è un'esperienza profonda. Mentre avanzo nei cunicoli scavati nella montagna, percepisco l'eco di vite sospese tra dovere e sopravvivenza. Quei luoghi sembrano custodire le storie di giovani soldati mandati a difendere un confine, costretti a diventare uomini con le armi in mano.
Qualche ricordo affiora invece per il secondo conflitto mondiale. «Qui in valle non ha raggiunto le atrocità viste in altri luoghi. È però viva l’immagine di due dei quindici civili uccisi in paese dai fascisti nel 1945. Ero piccolo, ma ho ancora davanti agli occhi i cadaveri lasciati sulla strada».
Lorenzo e Alessia raccontano aneddoti e mostrano i cimeli scoperti durante la riqualificazione effettuata dalla sezione bresciana dell’Associazione Nazionale Alpini, alla quale ha partecipato anche Lorenzo. Capisco che non si tratta solo di un recupero di materiale, ma di un vero e proprio atto di resistenza contro il silenzio e l’indifferenza. Perché la memoria ha bisogno di luoghi fisici in cui radicarsi.

La giornata si conclude con la visita alla capanna Tita Secchi, un bivacco in legno costruito negli anni '70 e dedicato all'omonimo partigiano, ucciso nel 1944 a soli 29 anni. La struttura si trova al Passo Portole, nel cuore delle Piccole Dolomiti Bresciane, ai piedi della Cima Caldoline. Il panorama toglie il fiato: tutt'intorno si estendono pini mughi che sembrano abbracciare il sentiero.
La giornata finisce e mi congedo dai miei compagni di viaggio. Sulla via del ritorno, mentre guido verso casa, il pensiero corre alle persone come Lorenzo, custodi silenziosi di un patrimonio inestimabile fatto di conoscenze pratiche, memoria vissuta, rapporto autentico con la terra. Un tesoro che non fa rumore, ma che ci ricorda chi siamo stati e, forse, chi potremmo ancora essere.
Torno con la consapevolezza di aver ricevuto una lezione preziosa: il tempo non è solo una linea che scorre, ma un intreccio di storie che continuano a sussare. E in un’epoca dove tutto corre troppo veloce, forse l’atto più rivoluzionario è proprio questo: fermarsi, ascoltare e lasciarsi attraversare.
Ciao Mauro grazie! Ogni tanto però ritornaci sui monti... Non occorre andare troppo in alto o troppo lontano per stare bene. Ciao!
Ciao Roby! Grazie di cuore per i tuoi racconti. Ora che età e alterne vicende non mi lasciano più andare per monti come un tempo, leggerti mi fa viaggiare e respirare un po’ di aria fresca.