"Malgrado tutto, sorrido alla vita"
Per Rosa Morotti, le ferite sono finestre dove osservare il mondo con occhi diversi
“Sono la nipote di Carlo Nembrini, guida alpina, morto in Bolivia nel 1973 a 34 anni”. Mi risponde così l’alpinista Rosa Morotti, bergamasca di Nembro, quando le chiedo di presentarsi. Mi spiazza e allo stesso tempo mi fa riflettere sul potere dei legami di sangue, magici e indistruttibili anche quando la morte ti porta via le persone che ami. E Rosa questo lo sa. Perché sulle cime che non ha mai smesso di raggiungere ci ha lasciato non poche croci.
La storia di Carlo Nembrini ancora oggi viene raccontata anche da chi non l’ha conosciuto.
Sì, perché è una storia di altruismo che ha lasciato il segno. Mio zio Carlo era il capo spedizione di una cordata che aveva raggiunto il Nevado Illampu, la quarta montagna più alta della Bolivia (6.368 m). Di ritorna a La Paz, lo informarono dell’incidente occorso a un alpinista francese e alla sua guida boliviana durante la scalata del Monte Illimani. I famigliari chiesero a mio zio e al suo gruppo di aiutarli a recuperare i corpi. Ritrovato quello della guida, Carlo decise di effettuare un ultimo tentativo per l’alpinista francese, ma proprio in quell’occasione perse la vita.
Che ricordo ha di suo zio?
Quando è morto avevo sette anni, ma ricordo tutto. Ho preso da lui la passione per la montagna, mi metteva in spalla e giù, con gli sci. Aveva un sacco di amici, la casa era sempre piena di gente e tutti gli volevano bene. A volte, era talmente preso dai suoi interessi, che mi dimenticava su qualche pista.
Quando ha cominciato a frequentare la montagna da alpinista?
Quando conosco mio marito, Sergio Dalla Longa1. Avevo 22 anni e mi abborda mentre sto andando al lavoro in bicicletta. Sono tecnico radiologo e a quei tempi lavoravo all’Ospedale Maggiore di Bergamo2 . Per farla breve, alla fine ci siamo sposati. Sergio mi ha iniziata alla montagna: la prima via scalata insieme è stata sulle Dolomiti, la Via Ferhmann Campanile Basso, la seconda è stata la cresta Kuffner, Mount Maudit, Monte Bianco. Ho capito subito che quella era la mia vita. Sono state l’inizio di una lunga serie di scalate e di viaggi in posti remoti alla ricerca di pareti inviolate: Groenlandia, Sud Africa, Namibia, Isola di Baffin in Canada, Giordania, Perù. A elencarle ora sembrano mete facile, ma in quegli anni si andava all’avventura, senza supporti tecnologici, senza satellitare. In alcuni Paesi si comunicava ancora con i telefoni a manovella.
Non eravate alpinisti professionisti: come riuscivate a viaggiare così tanto?
Non avevamo sponsor, quindi con i nostri soldi. Poi cercavamo di concentrare le spedizioni nei periodi delle ferie oppure ci inventavamo qualche trovata. Nel 1994, per scalare il Broad Peak in Pakistan, spedizione organizzata dal G.A.N.3 di Nembro, ci siamo sposati per sfruttare il congedo matrimoniale.
Qual è stata la prima lezione che suo marito le ha insegnato?
Il suo era un alpinismo classico, solo materiale indispensabile e pareti poco chiodate. Mi diceva: leggi tutti i libri che puoi e fatti un’idea di quello che potrebbe diventare il tuo alpinismo.
Il 29 aprile 2007 succede però qualcosa che le cambia la vita.
Eravamo in Nepal per una spedizione sul Dhaulagiri (8.167 m). Con noi c’era un gruppo di alpinisti forti, tra questi Mario Panzeri, Mario Merelli, Lina Quesada, Domenico Belighieri e Stefano Magri. Dopo settimane di maltempo si era aperta finalmente una finestra di condizioni buone per l’ascesa. Al campo 3, quello prima della vetta, arriviamo solo io e Sergio, perché gli altri avevano deciso di fermarsi al campo 2 a riposare non essendoci posto per altre tende. Iniziamo quindi l’ascensione, ma a meno di dieci metri dalla cima vedo mio marito scivolare e battere la testa. L’ho trovato io, ormai senza vita. Sono quindi scesa al campo base ma un gruppo di alpinisti aveva occupato la mia tenda. Non mi hanno fatta entrare: sono rimasta al freddo fino a quando sono arrivati Panzeri e Merelli. Li ho messi al corrente della morte di Sergio e con loro sono scesa al campo 2. Intanto sentivo un dolore lancinante alle mani e quando ho tolto i guanti le mie dita erano già in necrosi.
Come ha reagito dopo quella disgrazia?
Per un anno ho avuto problemi di sonno e sono dovuta ritornare in famiglia perché non potevo usare le mani. Le ho curate in camera iperbarica. Dovevo però reagire e la cosa incredibile è stata che a darmi la forza necessaria sono stati i malati di tumore ai quali somministravo la radioterapia. Mi dicevano: “A differenza nostra tu puoi ancora ricominciare”. L’anno dopo sono partita per la Patagonia.
Nella sua vita entra quindi un’altra persona speciale
Sì, circa due anni e mezzo dopo. Mi trovavo in zona Pizzo Badile con altri alpinisti e uno svizzero ci offre da bere. Si chiamava Norbert Joos, Noppa, un hymalaista con tredici ottomila scalati senza ossigeno. Gli mancava solo l’Everest, l’unica montagna che è riuscito a fermarlo. Ci aveva già provato nel 2008 con un amico che era poi morto per la fatica. Tanti alpinisti muoiono così, a volte li trovi seduti senza vita. Ci mettiamo insieme e mi trasferisco in Svizzera, dove trovo lavoro in un ospedale sempre come tecnico radiologo. Siamo stati insieme sette anni e grazie al suo lavoro di guida alpina ho visitato e scalato in diverse parti del mondo. Il 10 luglio del 2016, mentre scendeva dal Piz Bernina con dei clienti Norbert scivola e muore. Anche questa volta ho assistito alla tragedia, lo stesso incidente toccato a mio marito.
Com’è continuata la sua vita?
In Svizzera sono rimasta sola ed è inutile dire che la tragedia mi ha devastata. Ma ho continuato a scalare nonostante le difficoltà per trovare un compagno di cordata. Scalo con donne, spesso molto giovani che non hanno la mia stessa esperienza. Però mi diverto. Ho fatto tutte le nord delle Alpi e quest’anno andrò in Nepal con l’alpinista Tito Arosio, una spedizione di sette giorni in stile alpino fino a 6.700 metri. L’obiettivo è il Purbi Chyachu nella valle dello Jugal Hymal. Non ho mai amato gli ottomila, li considero una camminata in quota. E poi sei talmente sfinita che non te lo godi neppure. Mi piacciono le pareti nord, la difficoltà tecnica. Questa è la mia montagna.
Perché c’è ancora poca visibilità delle donne alpiniste?
Perché nell’alpinismo domina ancora il patriarcato. Si organizzano spedizioni di sole donne, ma se poi vai a vedere il capocordata è ancora un uomo, che significa non salire mai da prima anche se hai l’esperienza per farlo. E se succede, ti ricordano che ce l’hai fatta grazie a lui.
Nel curriculum di Rosa non c’è solo l’alpinismo, ma anche tanto sci alpinismo. Ha partecipato a diverse competizioni e ha praticato questa disciplina in luoghi remoti: Isole Lofoten, sulle Alpi di Lyngen, in Islanda, sulle Isole Svalbard, sul Monte Altaj lato russo e quest’anno lato Mongolia. “Mi piace la polvere, mi piace sciare come mi ha insegnato mio zio Carlo. Non arrampico tutto l’anno, mi dedico anche alle pareti di ghiaccio, falesie, camminate a 4.000 metri. Mi piacciono le creste”, spiega Rosa
L’anno scorso ha aperto una via molto speciale.
Sì, sono tornata in Bolivia. Volevo vedere dov’era morto zio Carlo cinquant’anni fa. Sono partita da sola, a Peñas c’è una missione e lì vive Daniele Assolari, volontario bergamasco e guida alpina. Sta chiodando falesie e istruendo la gente locale per diventare guida. Con Daniele e la sua sua fidanzata ho aperto una nuova via sul Monte Illimani. L’abbiamo chiamata la Via dei Nembresi, dedicata allo zio, a mio marito e a tutti i nembresi morti di Covid. Tra questi anche i miei genitori, che nella prima ondata della pandemia hanno perso la vita a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro.
Le piacerebbe che qualche azienda sostenesse le sue spedizioni?
Sono fiera di me stessa perché mi sono sempre autogestita senza uno sponsor. C’è più soddisfazione, non devo niente a nessuno.
Ha mai avuto paura?
La montagna mi ha dato molto, ma mi ha tolto anche due compagni. Nonostante questo non smetterò mai di scalare, perché ogni metro conquistato mi fa sentire viva. Sono una che sa tornare indietro, ho imparato a dar retta alle mie sensazioni, se avverto qualcosa di strano rinuncio. La prima volta che ho tentato l’Eiger, tutti mi parlavano della sua pericolosità. Poi, quando mi sono trovata di fronte la parete ho quasi avuto l’impressione che volesse abbracciarmi. Mi ha accolta, ha deciso lei. E tutto è andato bene.
I fratelli Dalla Longa Sergio e Marco hanno realizzato la prima salita italiana invernale e la seconda ripetizione italiana della parete Nord del Heigher. Per un malore, nel 2005, anche Marco ha perso la vita in montagna, al Campo Base del Nanda Devi East (Himalaya indiano), dove si trovava come capo della spedizione del CAI di Bergamo.
Ora si chiama Ospedale Papa Giovanni XIII
Alcune delle spedizioni di Rosa Morotti.
Broad Peak Pakistan e Dhaulagiri (Nepal); Isola di Baffin Canada, Monte Asgard; Groenlandia, nel sud aperte due vie nuove; Giordania, Area protetta Wadi Rum; Tanzania, Monte Kilimangiaro; 10 volte in Yosemite: 8 big Wall sul Capitan tra cui Nose Dihedral Wall e Mescalito; Nevada, Arizona, Colorado, Utha, Wohioming, Marocco; 6 volte in Patagonia. Tra le altre, la via Comesaña-Fonrouge alla Aguja Guillaumet; 6 volte in Alaska e Yukon, Monte Denali; La Esfinge, chiamata anche Torre de Parón, una montagna della Cordillera Blanca, in Perù; aperta la Via dei Nembresi sul Illampu, in Bolivia; parete nord ovest del Capütschin da naiv/Schneehaube del Piz Scerscen “Via Noppa” gruppo Bernina; via nuova sul piz Buin; pareti Nord delle Alpi; Via nuova sullo Scarscen gruppo Bernina via Noppa; Via Eckmair sull’Eiger; Grandes Jorasses, Via Cassin e Sperone Croz in invernale; Cervino, Via Schmid; Cima Grande di Lavaredo, via Hasse-Blander; Piz Badile, Via Amore Supercombo.
Rosa Morotti è anche accademica del CAI e nel 2001 ha ricevuto il Premio SAT, Società Alpinisti Tridentini, come miglior alpinista dell’anno.